Adrian non è Tiresia. Fuorché ogni dubbio è il fatto che vorrebbe esserlo; vorrebbe essere colui che conduce i re verso il futuro, che conosce l’uomo e la donna come parte di sé e grazie questa arcana conoscenza ad ergersi esperto di entrambi i sessi, in pregi e difetti. Vorrebbe essere colui che predice il futuro senza errore e vorrebbe che i suddetti uomini e donne pendano dalle sue labbra come dalle labbra di un oracolo.
Ma Adrian non è Tiresia.
Avviene che molti possono essere i punti in comune tra Adrian e Tiresia. Il tempo di entrambi è oramai passato, entrambi possono esser riveriti per il tempo che hanno segnato. Il racconto che dallo schermo nero si colora è la loro vita, sono i loro desideri, sono l’immagine che tramite la luce di un’arte oramai vecchia nel tempo in cui il mondo ad essa s’è abituato, che costruiscono di sé stessi e propongono a noi e alle nostre fauci lucide, scattanti nella vecchia carne dal sapore nuovo.
Ma, ancora, Adrian non è Tiresia.
Perché? Perché la risposta è in una sola frase:
Sono qui di persona, personalmente.
Attorno ad ogni figura che abbia calcato abbastanza questa terra, il cui passo fu pesante il giusto nel modo da lasciare un solco sulla stessa, si creerà sempre un’aura, come quella di cui narra Benjamin, anche se la carne non è mai un’opera d’arte, per quanto ci si sforzi con ferocia sempre inedita tutt’oggi nell’esserlo, come se l’orma del nostro piede far crescere l’erba, come se il passo di Gaia potesse essere il passo di veruno lo desideri abbastanza.
Ma non è vero. Uno lo è consapevole, l’altro no. O l’altra.
Adrian vuole essere Tiresia, anche se probabilmente per lui Tiresia è solo un nome esotico, come può esserlo Sherazade, Ezechiele, Mimir. Un nome come tanti, che suona più sensuale e s’assapora meglio. Egli si veste di un mondo che non gli appartiene, ma è un vestito corrotto. Un vestito becero, che veste molte più arti di quante abbiano domandato d’esser abbigliate. Poi, le rovina; le rovina una ad una. Perché ogni sua predizione e previsione, si perdono in un nero così nero, che perde la densità della tenebra e scade nella pece e nel petrolio, che cola, cola, cola dal vetro dello schermo e la cornice che altri hanno fatto per lui non basta a contenere la pece di un vecchio che narra ciò che non saprebbe narrare, con segni di cui si è appropriato e ha preteso come un sordo, come ha preteso che le sue predizioni e previsioni fossero giuste, non vere.
Certo della sicumera costruita su note suonate così tante volte che quella corda pian piano si spezzerà un giorno, in una frustata sorda, quando tutti guarderanno dall’altra parte, perché Adrian aveva dimenticato di non essere Tiresia.
L’aveva dimenticato quando s’era fatto annunciare in ogni dove, camminando verso il vetro come fosse un re. Un re che aveva perso, irrimediabilmente, i suoi vestiti, come l’imperatore delle favole e non si era accorto di averne messi di nuovi, di non essere nudo, di aver messo sul corpo vesti troppo corte e troppo larghe nel medesimo istante, che gli stringevano le membra e la pelle in forme ridicole, come la maschera che si calava sul suo volto; non evocata. Era solo scesa dall’aria stessa e si era posata su di un volto avvizzito dalle aspettative che nessuno aveva riposto.
E poi, c’è Tiresia. Tiresia non conosce Adrian. Come potrebbe? Lui è un cieco indovino che ha visto membra lucenti calando lo sguardo, che ha visto tutto ciò che vi era da vedere, ma nulla aveva da predire, né da prevedere, ché per lui era ogni istante presente e ogni momento vuoto. Lui conosceva la tenebra di Novalis e l’ha accolta, vi ha danzato senza orpelli a rovinare tutto, ha scelto un’arte; l’ha scelta con sé stesso, con Edipo, e vi è rimasto fedele, con l’intento inconscio di raccontarla, ma solo infine. Le tenebre egli conduce e da esse si rendeva condotto, come in siffatta danza che si consuma tra una sedia e un flauto, alle volte una percussione. Senza squilli, senza annunci. Lui non pretese, ma era cosciente della maschera sul viso, che lui aveva evocato per raccontarci, per comunicarci, ciò che un vecchio doveva far scivolare dal petto con la naturalezza di chi domanda l’ascolto e non la cerimonia. Semplice come la tenebra, come l’istante che si diventa ciechi nel silenzio. Semplice come l’edera tra le selci. Semplice come solo Tiresia sa essere e non ha raccontato la storia di sé stesso confondendola con qualcun altro; ha raccontato la storia di sé stesso dai versi, dai passi di qualcun altro e qualcun’altra. Alle volte gli piacque, alle volte no, ma non lesinò le calunnie, non lesinò gli sguardi che si posarono su di lui e ogni smorfia, che a guardar bene il suo volto solcato dal tempo dove tutto cade, è appartenuta ad ogni solco sulla fronte e sulle guance macchiate come una pera matura.
Lui non aveva paura di chiamarsi “vecchio” e non aveva paura dell’eternità che bussava alla porta di carne e ossa. Lui voleva solo raccontarci sé stesso, nei suoi errori, nelle sue stranezze e cogliere un breve istinto d’eternità, non costruendo la grandezza su mattoni di fango, ma celebrando la sua cecità come un dono, celebrando l’altro, celebrando Ezra Pound, T.S.Eliot, Virginia Woolf, Angelo Poliziano, Dante Alighieri, Ovidio e poi, alla fine, pensando a sé stesso, senza sicumera, senza palchi che non fossero le pietre dove altri sono diventati immortali.
Non ha presentato altro che sé stesso, la sua vecchiaia e la sua cecità, in persona, personalmente.
Solo Tiresia è Tiresia.