Lei giunse dalle lande di ponente,
da racconti dei refoli fra i venti,
oltre l’abbraccio fra la terra e il cielo.
Un’arciera dagli occhi puri e spenti
sul vispo volto viziato dall’uva.
Sembrava un giunco, nerboso e slanciato,
forte di un Qing di corno sulla spalla,
un dardo e tre otri di distillato.
Lei giunse a casa, alla Città d’Oro,
il dì che il baco da seta si schiuse.
Non levò le iridi morte alle porte
sublimi, le avvertì: profonde e chiuse.
Dalle alte mura, una sentinella,
che fu guardiano ai Picchi Splendenti,
vociava dalle nuvole all’arciera.
Lei giunse e udì lo scuotere di armenti.
“Non oltre il forestiero e l’esiliato
hanno a calcare il varco divino!
Fa noto di dov’è la tua venuta
o questa soglia sia la tua rovina!”
Lei levò al petto i palmi bendati
e le vesti nivee in drappi danzarono
all’oscuro soffio dei racconti.
Ma le sue membra fredde non tremarono.
“Io sono Arah, maestra dell’arco.
Da pellegrina ritorno al nostro regno,
da oltre l’abbraccio fra la terra e il cielo!”
E rumorò il ventre senza ritegno.
“Per reclamare il seggio che mi spetta!”
Ma tuonò dalle mura quel guardiano:
“Nessuno ti ricorda, avvinazzata!
Né le porte, né il fiume, né il melograno!”
Arah si scosse, come ramo al vento,
e colse l’arco dalla ritta schiena.
Il guardiano chiamò i suoi compagni,
ma ella tese il suo tendine serena.
La freccia nacque dalla terra muta,
come un drago fiatò verso il levare,
nel conquistare le profonde mura,
finché si udì una ciotola toccare.
Ed Arah mostrò i denti nel silenzio
che calò dai guardiani del fulgore.
Posò il Qing a tentoni e dichiarò:
“Da qui, mi udirà solo l’imperatore!”
Vagò una lega attraverso il buio,
finché un frusciò il melograno gemmato.
Vi posò l’arco, incrociò le gambe.
Uno scroscìo cantò solitario.
Lei sciolse un otre dalla fascia scura
e bevve, bevve, bevve solitaria.
E bevve, bevve, bevve alla salute,
alla pace, riverbero dell’aria.
Sentì le foglie danzare senza vita,
sentì ogni fiore tinto germogliare
presso le sponde ignote alle stagioni
che Arah, placida udì passare.
E quando scorsero, ad una ad una,
in un fruscìo diverso morirono
e risorsero, nel destare Arah
fra i segreti che intorno la bruirono.
Una stranezza, un fremito la scosse:
nel buio di qualcosa lei vedeva.
I flutti scuri di un torrente nero
che ogni forma ghermiva e mesceva.
Infine, i fermi battenti tuonarono
e l’oro si sparse sul giardino.
Negli occhi di Arah riscese la tenebra,
come il vento asciuga il mattino.
I tre colori scorsero dal varco
dell’Impero Celeste e sgorgarono
sull’erba, sul fiume, sul granato,
tersi i possedimenti che toccavano
i passi immortali della Corte
Sacrata. Oltre i passi degli schiavi
umiliati, oltre il fruscìo degli stemmi
gonfiati dal sospiro di alti avi,
oltre, infinitamente oltre, un muto
e soffice nido stava sul sentiero,
dietro un antico sipario di squille:
il custode del Cuore dell’Impero.
Il corpo del potere incedette,
si chiuse come braccia sull’arciera.
I guardiani suonarono le lance,
l’eminenza vociò in schiere, severa
“Chi chiede di varcare queste porte?”
“Chi siede sul Giardino del Celeste?”
“Chi da reietto il suo ritorno osa?”
“Chi dinnanzi i cancelli l’arco veste?”
La maestra chinò la sua fronte,
senza sfiorare il dominio dei cervi
e dei frutti proibiti. “Parlerò
solo con l’imperatore. Via, servi!”
Le lance incisero l’aria più prossime,
troppe voci esplosero, oltraggiate.
E la maestra, sotto il melograno,
aprì il secondo otre dell’estate.
L’ultimo fio d’acciaio tardava.
Lei bevve, bevve via ogni timore
che colmava i lancieri ed i ministri,
scudati dalle grida e dal rumore.
Al cupo culmine degli schiamazzi,
ogni voce morì, al solo gesto
che docile increspò il soffice nido.
Il Cuore dell’Impero manifesto.
La corte tacque alla tenue voce
spoglia di sesso, nata in primavera,
figliastra di potere e d’innocenza.
“Io ti conosco, tu sei Arah l’arciera
di mio padre, di mio fratello.”
I ricordi gravarono le fronti,
nelle memorie di polvere e sangue.
Ma lei non era giunta per i pianti.
“Io sono Arah, la cieca dell’arco.
Quando il falco mira il coniglio
esso è morto. Quando la mia freccia
vola, un padre piangerà suo figlio.”
Alcuni videro nei vacui occhi
l’assenza di un riflesso a sé presente.
E tutti risero, risero, risero.
Ministri, eunuchi, guardie e dame
risero, risero crudeli e avvinti
da lei, la guitta cieca e avvinazzata.
“Come?!” stridette un eunuco reale.
“L’arciera cieca con l’arco rubato!”
“Tirerà col fiato e con la lingua?”
“Un’abilità che il Regno tutto teme!”
Lei vuotò l’otre. “I miei pensieri,
le mie frecce volano. Insieme.”
Il suo otre sobbalzò sull’armatura
delle guardie, la corte ammutoliva
dinnanzi la maestra, ma il Celeste
dal verbo d’alabastro non tradiva
gioia, né rabbia, timore o reverenza.
Frusciò la manica, fine e divina
e saggio proclamò il fio per Arah:
“Il nuovo Capodanno s’avvicina
e giunse prossimo il divoratore
di uomini e bestiame. Campionessa,
io voglio che tu scacci questa belva
e voglio che la tua sia una promessa
ché il mangiatore della nostra carne
è figlio al fuoco e sangue di elefante,
piaga del grano che nutre la gente.
Sì, non potrai fuggire come errante
o pagherai con la tua vita.”
Le labbra custodirono ogni fiato,
ché Arah non vacillò per l’ordalia,
ma calò la sua fronte sopra il Prato.
“Desidero provare il mio valore.”
L’imperatore ed Arah si sorrisero.
L’arciera non aveva da vedere
quel che avvertiva dal senso più misero.
L’arciera udì le dolci sponde quiete,
sciolte dai passi della sacra corte,
che sigillò la soglia proibita.
Oltre, ballate in festa erano sorte,
il trionfo della vita nel notturno.
Ma presso il fiume, sotto il melograno,
nella pace del Tutto che danzava,
Arah attese, con l’arco nella mano.
Al quindicesimo soffio del vespro,
le alte note ballate sussultarono
sino al nido dove lei dormiva.
I devoti cantarono e cantarono,
ma solo uno osò oltre le Porte,
solo uno osò destarla dalla Vista:
un buon vecchione, vedovo da un anno,
che le donò una misera provvista.
Un buon vecchione, vedovo da un anno,
che le portò, chinato, la sua offerta.
“Perdonami, maestra, se a te porto
un parco pasto, la fame è sempre incerta!”
Il tocco di Arah cercò la sua voce,
trovando un bianco manto, saggio e fino.
Sorrise, orgogliosa del suo fato.
“No. Il tuo riso scioglierà il mio vino.
Già l’araldo del giorno nella notte
di festa si esibisce e già tuona
sulle lanterne. Torna, anima buona,
ho da mangiare, prima che tirare.”
Il buon vecchione, vedovo di un anno,
lasciò quel melograno per i canti,
lasciò quel melograno per i fuochi.
Arah stappò l’ultimo otre fra i denti.
Un fremito solenne e poi gioioso,
oltre le mura e le torri ascendeva,
flutti e steli tremarono in attesa
e la maestra i sensi tendeva.
La montagna ruggì, lacerò l’aria.
Quel fremito morì fra voci infrante.
L’arciera consumava la sua cena
di riso, carità di buon mercante.
Sorse un solco scarlatto, come sangue
e come lava scorse, infiammando
fiero le scure gole fra le vette,
verso le Porte i suoi occhi calando,
domando i venti fra cenere e carne.
Un’ombra immane crebbe e crebbe e crebbe,
sotto forme terribili e bastarde.
La zanna nera crebbe e crebbe e crebbe
e la belva ruggì di gola e furia
crepando il sacro suolo. Ogni voce
e canto ammutolì, come la selva
al passaggio del Re che arde feroce.
Quieta, la cieca consumava l’ultimo
otre rosso e pulì le dita
dai pochi chicchi. Infilò l’anello
bianco, fasciò di seta la sua vita
e sfiorò in un sussurro la faretra.
Nel rogo della belva le vedeva
la cupa, l’alta fiamma nelle fauci,
nel corpo torto che le precedeva.
Lei udì l’orgoglio della corda tesa.
Attese il suo demonio nella pace
disciplinata, nel riso e nel vino.
L’erba bruciò sotto il passo di brace
e vorace il respiro rovente
lambì le gote rosse dell’arciera.
Arah attese, attese presso il Tutto
l’istante che svelò la zanna nera.
Lei liberò il pensiero dalla freccia
e liberò la freccia dal pensiero
e divampò un incendio sulla belva
come fosse riavvolta da un cimiero
dei tre colori del Regno Celeste.
La creatura sgroppava in urla affrante:
la cupa, l’alta fiamma sulla fronte
arse la carne di Leo ed Elefante.
Fra i crepitii di pelle e terra scossa,
un’altra ombra, netta come roccia
fronteggiò la creatura inalberata
in lingue di fuoco. Ma lei come roccia
attese il tuono in tuffo delle zampe,
le iridi morte negli occhi roventi,
come un ago trafigge un dio al petto.
La belva ruggì in fremiti violenti:
un’ultima bestemmia verso il cielo.
Sazia d’orrore, stridette tremante
sino alla sua montagna. La maestra
tornò all’ombra del grano, trionfante.