In un tempo ancora sconosciuto, in un’arena da lungo dimenticata, dove solo ossa e sabbia rimanevano a testimone delle ere, una forza umana affrontava un Grande Nemico.
Quando la viva sfera turnò il volto
per due cicli, quando le ali d’oro
solcavano colonne di vapori,
laccio tra gli astri e il volto, passi rochi
sgranarono pulviscoli passati,
sepolcri tumidi dal Primo Ciclo
aridi, ché la madre ha scordato
l’aroma rosso. Passi, fermi passi,
battiti d’ossidiana, di schinieri
sotto la tunica in crine di corvo,
di anelli sotto i nembi luttuosi
d’una donna dagli occhi corazzati
dalla maschera scevra d’ogni viso,
ma affilata di sguardo. Fermi, i passi
spiegarono le ali della cenere
sull’arena. L’arena senza logge,
né pulvinaria, né fiere, né giochi,
senza la gloria, senza la memoria
di pioggia. S’arrestò la scura virago
nel vasto deserto dei maestri.
Quel cavaliere levò verso il palco
la martinella dal tocco di ferro.
Ne crepitò la romita durezza,
incrinando il silenzio ancora invitto.
La posò a destra. Alzò al levante
la martinella tratta in fulvo rame,
che nell’abbraccio della quiete schiocca.
La posò al mezzo. Levò nel ponente
la martinella, la proba d’argento,
sublime sonito nell’algida aria.
La posò a manca. Levò all’occhio in cielo
la martinella liscia in prodromo oro,
spillò bruma d’ambrosia, in un segno
lungi nelle ere al prossimo avvenire.
Il sibilo d’un’ombra svettò in cielo.
Affrancato al silenzio, il ruggito
sorse dal gorgo armato della gola,
incastonata nel grembo fatale
di plumbeo metallo. La sua fauce
s’affilava tra le iridi di serpe.
Nera, la cuspide sfiorò le selci.
Il Grande Verme l’alito a sé strinse,
l’arcano dello sguardo senza palpebra
che la carne impietra congiurando.
La martinella nera, liscia e pura,
tenebrosa toccò, spezzò la Moira
che l’aria già guastava nel suo incanto.
La lancia d’ossidiana due volte
vibrò in volo, solerte, alla scaglia
lunga sul collo, alta come torre
sul vuoto d’ogni affondo. Il ruggito
destò la roccia e il vento, affilato
l’irto dente crepò il vento e la roccia,
ma alcuna carne. Poi, la cavaliera
vorticò l’asta sull’elmo fregiato,
con valore percosse lo scaglioso,
tra vetro e ferro, nel lamento accorato
di versi draconiani. La colonna
vile batté sul fianco l’armatura,
soffio del Tartaro, la trasse al suolo
e balzò per scarnarla tra le grinfie.
Lei, lesta, svincolò l’unghia del verme
in un guizzo destro, uso alla tenzone;
non tentò di celarsi per il ventre
della rovina. Lei scosse l’affondo
una terza volta al fianco brumato
dall’oro della stirpe, ma dal grembo
non sgorgò un fiume, scudato dall’ala,
orgoglio delle nubi. Il serpente
del cielo torse il collo e schiuse l’alito
di rovente nebbia. Essa avvolse
la prode fra i miasmi, come un cappio
tumula il collo del suo condannato.
L’arena si colmò fin su i pulpiti
del fiato immortale, in un mare
dove ogni palpito in polvere sfuma.
La martinella nera, liscia e pura,
tenebrosa toccò, spezzò la Moira.
Al tintinnìo, la guerriera sorse
in un turbine d’aria pura e libera
e nulla incrinò le piastre nere.
Bramì, il Verme, di furia di zanne,
lacerò il nocumento del suo fiato,
guizzò e colse la carne del genicolo,
tra i lembi gonfiati dalla veste.
Nessun grido squarciò la sua battaglia.Tra i resti delle ossa nella sabbia,
scorreva dalla piaga della Nera
una pozza di luce esalava
fili di nubi, pallidi e danzanti
sui resti delle ossa in una pozza.
Il Verme si levò, conquistatore,
perché calasse l’ultimo affondo,
ma un tesoro brillò fra la foschia.
La Nera scorse il ventre rivelato
nella famelica urgenza di Morte.
L’arma vitrea tentò il petto nudo.
Ombra fine sbrecciò nel cuore del Verme.
Il Verme rovinò nel gran riposo
con urto sordo; sanguinò silente
senza palpito vivo, del piceo
rivo bagnò quell’arido deserto,
simulacro di cenere e di tempo.
Silenzio, nuovamente. Si taceva
ogni sussurrìo come ogni ecumenico
soffio d’elementi. Lei, l’invitta,
volse il respiro al mondo vespertino.
Schiuse l’abbraccio, congiurando pioggia.