Pensieri: Sull’Infinito di Leopardi e sull’importanza della Contemplazione

La mia immaginazione trova Sublime come l’Infinito, prima di essere svelato negli Idilli del 1826, abbia dormito per sette degli anni in cui i britannici Keats, Shelley e Byron sparivano dal mondo.
La mia immaginazione trova malinconico – nel senso più vago del termine – come l’Infinito sia stato terminato nell’anno in cui Il Conciliatore fu soppresso dalla censura asburgica. Questa famosa poesia non volge le spalle ad un’epoca che oggi contempliamo con molto meno spirito critico di una semplice siepe, né Leopardi ha mai voltato le spalle al suo presente, perché l’ispirazione stessa dell’Infinito si innalza in un sentire universale partendo dalla soggettività della siepe e dell’ermo colle , travalicando il tempo e lo spazio, e come le sue ali di albatro e usignolo non siano meno ampie, meno buie – di un buio che non è tenebra – di quelle del drago della Primavera dei Popoli che si sarebbe avverata da lì a poco.

L’Infinito è oltre l’oggetto su cui insistono i nostri occhi, disciolto nell’infinito silenzio dove riverbera la voce di molti e di uno solo, per dirla come Shelley “the echo of the eternal music[1].

Il titolo è la meta, non il cuore della poesia del Leopardi; il suo cuore è la contemplazione di un sublime che è riflesso, che si rivolge all’interno e nella memoria soggettiva di una sola persona trova un accordo che vibra nell’universo. Questo accordo è stimolato, ma non non subordinato, dalle suggestioni che in pochi decenni muteranno nelle Corrispondenze di Baudelaire. L’Infinito è un’isola nella letteratura europea, rappresentando una differenza sottile fra l’atto di “Fingersi” proprio di questo idillio e “l’Immaginato” di poemi e ballate come sono state The Rime of the Ancient Mariner del Coleridge.

Ma dov’è l’Infinito?

Quasi mezzo secolo dopo De Sanctis suggerirà: “Queste ombre e questi sentimenti sono immediati e inconsapevoli. Non nascono da un pensiero attivo che li produca con la sua impronta; anzi sembra che naturalmente piovano nello spirito.[2]

Chiedersi cosa sia un’ombra, perché venga richiamata dal vento fra le fronde e dalla risacca della propria voce, come spiriti radunati alle porte dei vivi nella Notte dei Morti. Chiedersi perché in esse, informi eppure presenti, “sovvien l’eterno”.

Eterno e Infinito si muovono su due assi paralleli nella promessa di incontrarsi, ma Leopardi non cerca di essere il loro punto di incontro; suggerisce il contemplare il loro inseguirsi che “makes familiar objects as if they were not familiar”, per citare di nuovo Shelley.

Il “sempre caro” di luoghi abituali muta in un “fingersi” non forte e passionale, ma così profondo che ci si trova in un luogo Oltre “ove per poco / il cor non si spaura.”, ma solo per poco la ragione trema prima di essere rassicurata dal suo stesso naufragare in un luogo Oltre di “sovrumani silenzi”, dove è la consapevolezza di esser parte di quella “immensità”, a quietare il cuore più che varca le soglie delle ombre assiepate attorno a noi durante la contemplazione, ombre che hanno le sembianze di chimere curiose emerse dal Tir Na Nog, dai Campi Elisi, da ovunque che non sia il qui e l’ora.

Non è dato sapere cosa accade lì – se non lasciando che la nave dell’io naufraghi dove la semplice percezione dell’occhio e della nostra arroganza “oggettiva” non può arrivare. Chi legge da fuori, però, sa solo come questo naufragare sia “dolce”.

Rimbaud scrisse che “Le poète se fait voyant par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens.”[3] e in questo è fratello di Leopardi. La sregolatezza dei sensi è un panico disperdersi e naufragare, sia essa nella pacatezza della contemplazione, sia nel vigore delle passioni, ma pur sempre un perdersi e disciogliersi nel tempo e nello spazio, nell’Eterno e nell’Infinito.

Che la sregolatezza sia ragionata è una condizione propria di chi interiorizza e riflette e scrive su questo: lo possono fare tutti, ma non tutti hanno voglia di mettersi a farlo ed è giusto anche così.

Noi siamo solo una tappa dell’Infinito, ma siamo i più distanti secondo il viaggio della freccia che è il tempo, da quando questa freccia ha perso le piume d’oca dall’impennatura. Preferiamo la certezza del sibilo, la sicurezza nel centrare il bersaglio e solo quello guardiamo, perché quello è richiesto oggi, perché questo è utile oggi.

La contemplazione dell’Infinito è osteggiata dall’urgenza di alzarsi dall’ermo colle e scendere il suo pendio perché qualcosa ci attenderà a valle, dalla certezza che lì ci sia per forza qualcosa di concreto per cui ne sia valsa la pena, altrimenti le ombre caleranno su di noi.
Ombre impossibili da conoscere, ma che ai nostri occhi contemporanei sono pericolose.
Ombre che ci inseguono non per tormentarci, ma per farsi vedere e ascoltare, desiderose di renderci partecipi di una vaghezza inutile. Non temiamo le Ombre, temiamo la Contemplazione perché Inutile – nel senso più alto. Il mondo oggi si è fermato al primo emistichio nell’ottavo verso dell’Infinito. Temiamo di udire una voce dal petto proferisce a noi stessi “il vento / odo stormir tra queste piante […]”, temiamo di volgere lo sguardo alle ombre dove risiede “quello / infinito silenzio” perché colmerebbe i nostri polmoni, il nostro petto in un abisso per osservare tramonti che non sarebbe nostro potere osservare, su sentieri che non dovremmo percorrere.

Non tutti i pellegrini sono poeti, ma tutti i poeti sono pellegrini.
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[1] A defense of Poetry

[2] La Letteratura Italiana del XIX secolo

[3] “”Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi.” Lettre du voyant